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6 aprile 2012

Il crimine d'amore contro il partito

"Rientrò nel suo cubicolo, si sedette, gettò con fare noncurante il pezzetto di carta sul tavolo, assieme agli altri documenti, inforcò gli occhiali e tirò a sé il parlascrivi. "Cinque minuti" si disse, "almeno cinque minuti!" Il cuore gli pulsava in petto con un ritmo forsennato. Per fortuna era impegnato in un lavoro di ordinaria amministrazione, la correzione di un lungo elenco di cifre, che non richiedeva molta attenzione.

Qualunque cosa ci fosse scritto sul foglietto, doveva avere un significato
politico. Per quanto riusciva a capire, le possibilità erano due. L'ipotesi più probabile era che la ragazza fosse un'agente della Psicopolizia, proprio come aveva temuto. Non capiva per quale motivo quelli della Psicopolizia avessero deciso di trasmettergli un messaggio in quel modo, ma dovevano avere le loro ragioni. Il biglietto poteva contenere una minaccia, una con-vocazione, l'ordine di suicidarsi, una qualche trappola. C'era però anche u-n'altra possibilità, più temeraria, che aveva cominciato a farsi strada nella sua mente, e cioè che il messaggio non venisse affatto dalla Psicopolizia, ma da qualche organizzazione clandestina. Forse la Confraternita esisteva davvero! Si trattava sicuramente di un'idea assurda, ma gli era balzata in mente nello stesso momento in cui si era ritrovato in mano quel biglietto. Solo un paio di minuti dopo aveva contemplato l'altra ipotesi, la più pro-babile. Eppure anche adesso, mentre il cervello gli diceva che si trattava, con certezza quasi assoluta, di un messaggio di morte, anche adesso la sua impressione era diversa e quell'assurda speranza ancora persisteva e il cuo-re gli arrivava in gola. A fatica riuscì a evitare che la voce gli tremasse mentre dettava le sue cifre al parlascrivi.
Una volta finito con i documenti a cui stava lavorando, li arrotolò e li in-filò nel tubo della posta pneumatica. Erano trascorsi otto minuti. Si riag-giustò gli occhiali sul naso, emise un sospiro e accostò a sé il blocco di carte successivo, che aveva in cima il foglietto di carta. Lo aprì. Vi era scritto, in grossi caratteri vergati con calligrafia incerta:
TI AMO.
Rimase stupefatto per diversi secondi, non riuscendo nemmeno a buttare l'oggetto incriminato nel buco della memoria. Quando infine lo fece, non riuscì a resistere alla tentazione di leggerlo prima un'altra volta, pur sapen-do quanto fosse pericoloso mostrare un interesse eccessivo. Voleva essere sicuro che le parole fossero proprio quelle.
Per il resto della mattinata lavorare gli riuscì difficilissimo. La necessità di non lasciar trapelare davanti al teleschermo la sua agitazione era perfino più gravosa del doversi concentrare su carte insignificanti. Era come se un fuoco gli ardesse nel ventre. Il pranzo nella mensa surriscaldata, affollata e rumorosissima fu un vero tormento. Aveva sperato di restare un po' solo durante quell'ora di pausa, ma sventura volle che quell'imbecille di Parsons si piazzasse proprio accanto a lui, trasudando un tanfo quasi più intenso dell'odore metallico dello stufato e riversandogli addosso un torrente di
chiacchiere sui preparativi per la Settimana dell'Odio. Manifestava un par-ticolare entusiasmo per una scultura in cartapesta, alta due metri, rappre-sentante la testa del Grande Fratello, che la squadra delle Spie di cui face-va parte la figlia stava costruendo per l'occasione. Winston era irritato so-prattutto dal fatto che in quella babele di voci riusciva a malapena a sentire quello che Parsons stava dicendo e doveva chiedergli in continuazione di ripetere questo o quel particolare insignificante. Per un istante gettò lo sguardo in direzione della ragazza dai capelli neri, che se ne stava seduta all'estremità opposta della sala in compagnia di altre ragazze, ma lei parve non averlo visto, e lui stesso non guardò più in quella direzione.
Nel pomeriggio le cose andarono meglio. Subito dopo la fine del pranzo gli pervenne del materiale delicato e difficile, che avrebbe richiesto parec-chie ore di lavoro, con assoluta precedenza su tutto il resto. Consisteva nel-la falsificazione di una serie di rapporti sulla produzione risalenti a due an-ni prima, che andavano riscritti in modo da gettare discredito su un mem-bro insigne del Partito Interno, ora caduto in disgrazia. Era il tipo di lavoro in cui Winston riusciva meglio, e per più di due ore riuscì a non pensare minimamente alla ragazza. Poi il ricordo del suo volto lo assalì di nuovo, e con esso un desiderio prepotente e insopprimibile di restare solo. Finché non fosse stato solo, sarebbe stato impossibile pensare ai nuovi sviluppi. Quella sera aveva preso l'impegno di andare al Centro Sociale. Trangugiò un altro pasto insapore alla mensa, si precipitò al Centro, partecipò a una di quelle solenni pagliacciate che chiamavano "discussioni di gruppo"; giocò un paio di partite a ping-pong, ingollò diversi bicchieri di gin e si sorbì per mezz'ora una conferenza dal titolo "Il Socing considerato in rela-zione al gioco degli scacchi". Il cuore gli si torceva per la noia, ma una volta tanto non aveva sentito l'impulso di sottrarsi alla serata al Centro. La vista delle parole Ti amo aveva fatto rinascere in lui il desiderio di vivere e perciò correre rischi su faccende di poca importanza gli era subito parso futile. Fu solo alle ventitré, quando ritornò a casa e si mise a letto, in quel buio nel quale si era al sicuro dal teleschermo finché si restava in silenzio, che gli riuscì di pensare in maniera consequenziale.
C'era un problema pratico da risolvere: come contattare la ragazza e or-ganizzare un incontro. Non prese più in considerazione l'ipotesi che voles-se tendergli una trappola: l'evidente agitazione quando gli aveva messo in mano il foglietto di carta lo aveva rassicurato su questo punto. Era certa-mente atterrita fin nelle profondità del suo essere. Né gli passò per la men-te l'idea di rifiutare le sue profferte. Solo cinque sere prima aveva contem-
plato l'ipotesi di fracassarle la testa a colpi di pietra, ma ora la cosa non a-veva più importanza. Pensò al suo corpo giovane e nudo, così come lo a-veva visto in sogno. L'aveva creduta una sciocca come tutte le altre, con la testa piena di odio e menzogne, e il ventre di ghiaccio. Il pensiero che po-tesse perderla, che quel corpo giovane e bianco potesse sfuggirgli lo prese come una febbre! Più di ogni altra cosa, lo spaventava l'idea che se non fosse riuscito a mettersi in contatto con lei, la ragazza avrebbe potuto cam-biare idea. Ma le difficoltà pratiche che si frapponevano a un loro incontro erano enormi: come tentare di fare una mossa dopo aver già subito scacco matto. Da qualunque parte ci si voltasse c'erano teleschermi. Già i cinque minuti successivi al momento in cui aveva letto il biglietto gli erano bastati a esplorare le diverse possibilità d'incontrarla; ora, tuttavia, che aveva tem-po a sufficienza per pensare, le ripercorse tutte, come se mettesse in bella fila sul tavolo degli strumenti di lavoro.
Non era neanche pensabile che si potesse ripetere il tipo d'incontro che avevano avuto quella mattina. Se la ragazza fosse stata impiegata all'Ar-chivio, sarebbe stato relativamente semplice, ma lui aveva solo una vaga idea di dove fosse ubicato, all'interno dell'edificio, il Reparto Finzione, né aveva una qualsiasi ragione che lo autorizzasse ad andarci. Se avesse sapu-to dove abitava e a che ora usciva dall'ufficio, avrebbe anche potuto fare in modo d'incontrarla "per caso" mentre ritornava a casa. D'altra parte, cerca-re di seguirla a fine lavoro sarebbe stato rischioso, perché avrebbe dovuto aggirarsi nei pressi del Ministero e ciò sarebbe stato rilevato certamente. Quanto a mandarle una lettera, non era neanche il caso di parlarne. Era in-fatti prassi corrente, e neanche segreta, che prima di essere inoltrate tutte le lettere venissero aperte. In realtà, erano ben pochi quelli che scrivevano lettere. Per quei messaggi che occasionalmente era necessario inviare, esi-stevano cartoline prestampate con lunghi elenchi di frasi, in cui bastava depennare quelle che non si applicavano al caso specifico. E in ogni caso Winston non solo ignorava l'indirizzo della ragazza, ma non sapeva nean-che come si chiamasse. Infine stabilì che il posto più sicuro era la mensa. Se gli fosse riuscito di trovarla sola a un tavolo, più o meno al centro della sala, non troppo vicino ai teleschermi, con un vocio sufficientemente alto tutt'intorno — e se tutte queste condizioni fossero durate per almeno una trentina di secondi — sarebbe stato possibile scambiarsi qualche parola.
Per una settimana intera dopo l'incidente, la vita fu un sogno inquieto. Il giorno dopo la ragazza fece la sua comparsa nella mensa quando si era già sentito il fischio e lui stava per uscire. Con ogni probabilità, le avevano
cambiato il turno. Passarono l'uno davanti all'altra senza neanche guardar-si. Il giorno seguente era in mensa alla solita ora, ma in compagnia di altre tre ragazze e proprio sotto un teleschermo. Poi, per tre orribili giorni, non comparve affatto. Winston aveva l'impressione che tutta la sua mente e tut-to il suo corpo fossero affetti da una ipersensibilità insopportabile, una sor-ta di trasparenza che gli rendeva angoscioso ogni movimento, ogni rumore, ogni contatto, ogni parola che gli venisse fatto di pronunciare o ascoltare. Perfino nel sonno l'immagine di lei lo perseguitava. Durante quei giorni non toccò neanche il diario. Trovava un po' di requie solo lavorando, quando riusciva, di tanto in tanto, a dimenticare se stesso per una decina di minuti di seguito. Non c'era assolutamente modo di sapere che cosa le fos-se capitato, né poteva chiedere a chicchessia. Poteva darsi che fosse stata vaporizzata, che si fosse suicidata, che l'avessero trasferita in una località remota, ma poteva anche darsi — ed era l'ipotesi peggiore — che avesse semplicemente cambiato idea, decidendo quindi di evitarlo.
Il giorno dopo riapparve. Non aveva più il braccio al collo, ma solo un cerotto attorno al polso. Il sollievo nel rivederla fu così grande, che Win-ston non poté evitare di guardarla fisso per alcuni secondi. Il giorno se-guente riuscì quasi a rivolgerle la parola. Quando entrò nella mensa, vide che stava seduta a un tavolo a sufficiente distanza dalla parete, sola. Era presto e non c'era ancora molta gente. La fila in cui si trovava Winston procedette regolarmente finché non arrivò quasi al banco, poi si bloccò per un paio di minuti perché uno che si trovava più avanti sosteneva di non a-ver ricevuto la sua pasticca di saccarina. Comunque fosse, la ragazza era ancora sola quando Winston, riempito il vassoio, tentò di raggiungere il suo tavolo. Avanzò con fare noncurante in quella direzione, fingendo di volgere gli occhi, nella ricerca di un posto, a un tavolo un po' più in là ri-spetto a dove lei stava seduta. Era giunto ormai a soli tre metri. Altri due secondi e ce l'avrebbe fatta. Proprio in quel momento una voce alle sue spalle chiamò: «Smith!». Finse di non sentire. «Smith!» ripeté la voce, con più forza. Non c'era più nulla da fare. Si voltò. Un giovanotto dai capelli biondi e la faccia da ebete, di nome Wilsher, che lui conosceva appena, lo stava invitando con un largo sorriso a sedere a un posto vuoto al suo tavo-lo. Non era consigliabile rifiutare. Una volta invitato, non poteva andarsi a sedere al tavolo di una ragazza che non aveva compagnia. Il suo gesto a-vrebbe dato nell'occhio. Sorridendo amichevolmente, si sedette al tavolo di Wilsher, la cui faccia bionda e insignificante si aprì a sua volta in un largo sorriso. Winston sognò di spaccargliela con un bel colpo di piccone. Dopo
qualche minuto, il tavolo a cui sedeva la ragazza era pieno.
Tuttavia lei doveva averlo visto e forse aveva colto il messaggio. Il gior-no dopo Winston fece in modo di arrivare per tempo. Manco a dirlo, la ra-gazza stava seduta più o meno allo stesso tavolo, sola. In fila lo precedeva un omuncolo assai svelto nei movimenti, una specie di scarafaggio con la faccia piatta e un paio di occhietti sospettosi. Mentre si stava allontanando dal banco col suo vassoio, Winston si accorse che l'omuncolo si stava diri-gendo proprio verso il tavolo della ragazza. Si sentì nuovamente prendere dallo scoramento. C'era un posto vuoto anche a un tavolo più avanti, ma qualcosa nei movimenti dell'omuncolo lasciava capire che avrebbe scelto la soluzione per lui più comoda e si sarebbe seduto a quello dove si trova-va la ragazza. Sconfortato, Winston lo seguì. Se non fosse riuscito a stare un momento solo con lei, tutto sarebbe stato inutile. Proprio in quel mo-mento vi fu un tremendo fracasso. L'omuncolo era bocconi per terra e il suo vassoio era volato per aria, lasciando sul pavimento due rivoli di mine-stra e di caffè. Con uno scatto, fu di nuovo in piedi, lanciando un'occhiata cattiva a Winston, che evidentemente sospettava di averlo fatto inciampa-re. Ma la cosa finì lì. Cinque secondi dopo, col cuore che gli balzava in petto, Winston era seduto al tavolo della ragazza.
Non la guardò in faccia. Liberò il vassoio e cominciò subito a mangiare. Era fondamentale parlare subito, prima che arrivasse qualcun altro, ma a-desso una paura terribile si era impadronita di lui. Era passata una buona settimana da quando lei lo aveva contattato, e forse aveva cambiato idea, anzi aveva certamente cambiato idea. Era impossibile che questa storia giungesse a buon fine: cose del genere non accadevano nella vita reale. E forse avrebbe rinunciato una volta per tutte ad aprire bocca se proprio allo-ra non avesse scorto Ampleforth, il poeta coi ciuffi di peli nelle orecchie, che veniva avanti lentamente, vassoio in mano, guardandosi intorno in cer-ca di un posto libero. A modo suo, Ampleforth provava una forte simpatia per Winston e se lo avesse visto si sarebbe certamente seduto al suo tavolo. Restava un solo minuto per agire. Intanto, sia lui che la ragazza continua-vano a mangiare come se nulla fosse. La sbobba che avevano davanti era uno stufato molto diluito, in realtà una banale zuppa di fagioli bianchi. Winston cominciò a parlare in una specie di sussurro. Nessuno dei due al-zò gli occhi. Continuarono a ingoiare quella brodaglia, ma fra una cuc-chiaiata e l'altra, e parlando a voce bassa e in tono inespressivo, riuscirono a comunicarsi l'indispensabile.
«A che ora esci dall'ufficio?»
«Alle diciotto e trenta.»
«Dove ci possiamo vedere?»
«In Piazza Vittoria, accanto al monumento.»
«È pieno di teleschermi.»
«Se c'è folla non ha importanza.»
«Segni convenzionali?»
«Nessuno. Non ti avvicinare a me se non mi vedi in mezzo a molte per-sone. E non mi guardare. Limitati a starmi nei pressi.»
«A che ora?»
«Alle diciannove.»
«Va bene.»
Ampleforth non vide Winston e si sedette a un altro tavolo. Lui e la ra-gazza non si rivolsero più la parola e, per quanto era possibile per due per-sone che stavano sedute l'una di fronte all'altra al medesimo tavolo, non si guardarono nemmeno. Lei finì rapidamente di mangiare e andò via, mentre lui restò a fumarsi una sigaretta.
Winston arrivò in Piazza Vittoria prima dell'ora stabilita. Si mise a pas-seggiare avanti e indietro sotto l'enorme colonna scanalata, in cima alla quale la statua del Grande Fratello scrutava l'orizzonte rivolto a sud, là do-ve aveva debellato l'aviazione dell'Eurasia (fino a pochi anni prima si era trattato dell'aviazione dell'Estasia) nella Battaglia di Pista Uno. Nella stra-da di fronte vi era una statua equestre che avrebbe dovuto rappresentare Oliver Cromwell. Erano passati cinque minuti dall'ora stabilita, ma la ra-gazza non si era vista. Ancora una volta Winston si sentì prendere da una paura terribile. Non sarebbe venuta, aveva cambiato idea! Passeggiò len-tamente verso il lato nord della piazza e provò una sorta di flebile piacere nel riconoscere la chiesa di San Martino le cui campane, finché c'erano sta-te, avevano detto col loro suono: "Mi devi un soldino". Fu allora che la vi-de. In piedi sotto il monumento, leggeva o fingeva di leggere un manifesto che avvolgeva la colonna. Non era prudente accostarsi a lei fino a quando la piazza non fosse stata un po' più piena di gente. Vi erano teleschermi tutt'intorno al frontone. Proprio in quel momento si udirono, provenienti da sinistra, alte grida e un rombo di autoveicoli e parve che all'improvviso tut-ti si mettessero a correre in quella direzione. La ragazza girò velocemente intorno ai leoni collocati alla base del monumento e prese a correre come gli altri. Winston la seguì. Mentre correva, sentì gridare che stava passando un convoglio di prigionieri eurasiatici.
Si era già radunata una gran folla che ostruiva tutto il lato sud della piaz-
za. Winston, che apparteneva a quel tipo di persone che solitamente si ten-gono alla larga da ogni genere di parapiglia, stavolta si mise a spingere, a urtare questo e quello e a dare gomitate per portarsi proprio là dove la folla era più fitta. Si trovava ormai alla distanza di un braccio dalla ragazza, ma li separavano un prolet gigantesco e una prolet dalla corporatura parimenti impressionante, probabilmente sua moglie, che formavano un muro di car-ne quasi impenetrabile. Winston si portò accanto a loro e con un violento affondo riuscì a insinuarsi di traverso in mezzo ai due. Per un attimo ebbe l'impressione che le viscere gli si riducessero in poltiglia, schiacciato co-m'era fra quei due poderosi fianchi, ma poi riuscì a passare, al prezzo di un po' di sudore. Era adesso accanto alla ragazza. Spalla contro spalla, en-trambi con lo sguardo fisso dinanzi a sé.
Una lunga fila di autocarri procedeva lentamente lungo la strada. Su o-gnuno di essi, piantate ai quattro angoli, guardie dalle facce inespressive, armate di fucili mitragliatori. In mezzo, accosciati e ammassati l'uno ac-canto all'altro, uomini in logore uniformi verdastre, piccoli di corporatura e con la pelle gialla. Dalle fiancate dei carri i loro occhi tristi da mongoli guardavano la folla, ma sembravano manifestare la più grande indifferenza per quello che accadeva intorno a loro. Di tanto in tanto, quando un carro sobbalzava, si levava un clangore metallico: tutti i prigionieri avevano ca-tene ai piedi. Passarono carri e carri di quelle facce tristi. Winston sapeva che erano lì, ma riusciva a vederli solo in maniera intermittente. La spalla della ragazza, e un braccio fino all'altezza del gomito, erano premuti con-tro i suoi, e la guancia era così vicina che poteva sentirne il calore. Anche in questa circostanza, come del resto era già accaduto alla mensa, la ragaz-za aveva subito preso in pugno la situazione. Cominciò a parlare nella soli-ta maniera inespressiva, muovendo appena le labbra in una specie di sus-surro, facilmente sovrastato dal vocio diffuso e dal rimbombo dei carri.
«Mi senti?»
«Sì.»
«Sei libero domenica pomeriggio?»
«Sì.»
«Allora ascolta attentamente. Devi imprimerti nella memoria quel che ti dico. Va' alla stazione di Paddington...»
Con una precisione quasi militare che lo lasciò stupefatto, gli delineò il percorso che avrebbe dovuto seguire: mezz'ora di treno; arrivato alla sta-zione, girare a sinistra; fare due chilometri seguendo la strada; un cancello con l'asse superiore mancante; un viottolo che passava attraverso un cam-
po; una stradina invasa dall'erba; un sentiero fra i cespugli; un albero rin-secchito coperto di muschio. Era come se in testa avesse una carta topogra-fica. «Ce la fai a ricordare tutto?» mormorò infine.
«Sì.»
«Prima giri a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra. Al cancello manca l'asse superiore.»
«Ho capito. A che ora?»
«Intorno alle quindici. Può darsi che tu debba aspettare. Io arriverò per un'altra strada. Sei sicuro di ricordare tutto?»
«Sì.»
«Allora allontanati da me il più presto che puoi.»
Non c'era bisogno che glielo dicesse, ma per il momento era impossibile districarsi dalla calca. Gli autocarri, infatti, continuavano a passare tra la folla che guardava a bocca aperta. Al principio si erano sentiti urla e fischi, emessi dai membri del Partito che si trovavano fra la gente, ma erano ces-sati quasi subito. A prevalere, infatti, era un sentimento di curiosità. Gli stranieri, che provenissero dall'Eurasia o dall'Estasia, erano come degli a-nimali esotici. Li si vedeva, letteralmente, solo come prigionieri, e anche allora non si poteva gettare loro che una rapida occhiata. Non si sapeva ne-anche che fine facessero, a parte quei pochi che venivano impiccati come criminali di guerra: gli altri semplicemente sparivano, forse li mandavano ai lavori forzati. Ora le tonde facce mongoliche erano state sostituite da al-tre di un tipo più vicino a quello europeo, sporche, con la barba lunga, e-sauste. Talvolta, al di sopra di zigomi scarni, un paio d'occhi si affissavano in quelli di Winston con una strana intensità, per poi rivolgersi subito al-trove. Il convoglio si avviava alla fine. Nell'ultimo carro vide un uomo an-ziano, con una gran massa di capelli brizzolati davanti al viso, che se ne stava ritto in piedi coi polsi incrociati, come se fosse abituato a tenerli ammanettati. Era ormai giunto il momento che Winston e la ragazza si se-parassero. All'ultimo momento, però, mentre erano ancora attorniati dalla folla, la mano di lei cercò la sua e gliela strinse.
Le loro mani erano rimaste strette per non più di dieci secondi, e tuttavia quel tempo era parso lunghissimo. A Winston fu sufficiente per conoscere ogni dettaglio della mano che lo stringeva. Ne esplorò le dita lunghe, le unghie armoniose, la palma callosa, indurita dal lavoro, la pelle liscia al di sotto dei polsi: ora sarebbe stato capace di riconoscerla a vista. Nello stes-so momento si rese conto che non sapeva di che colore fossero gli occhi della ragazza. Probabilmente erano marroni, ma a volte le persone con i
capelli neri li avevano azzurri. Girarsi per guardarla sarebbe stata un'assur-da follia. E così, tenendosi ben stretti per mano, resi invisibili da quella muraglia di corpi, avevano entrambi lo sguardo fisso davanti a sé, e non furono gli occhi della ragazza a guardare Winston ma quelli dolenti del vecchio prigioniero, che lo fissavano di sotto a quella disordinata massa di capelli.

Winston si fece strada su per il sentiero, fra macchie di luce e ombra, poggiando il piede, quando i rami si aprivano, su pozze dorate. Sotto gli alberi alla sua sinistra, indistinti manti di campanule. Pareva che l'aria vi posasse baci sulla pelle. Era il due di maggio. Dal fondo del bosco si udiva un tubare di colombi selvatici.
Era un po' in anticipo. Non aveva incontrato difficoltà a raggiungere il luogo dell'appuntamento, e il fatto che la ragazza fosse così palesemente esperta aveva attutito in lui la paura da cui altrimenti si sarebbe lasciato prendere. Con ogni probabilità avrebbe trovato un posto sicuro. In genera-le, non è che la campagna fosse più sicura di Londra. Mancavano i tele-schermi, ovviamente, ma c'era sempre la minaccia di microfoni nascosti, per mezzo dei quali si potevano intercettare e identificare le voci. Era dif-ficile, inoltre, viaggiare da soli senza dare nell'occhio. Per le distanze infe-riori ai cento chilometri non era necessario farsi vistare il passaporto, ma non era raro che pattuglie di polizia facessero la ronda attorno alle stazioni ferroviarie, chiedendo i documenti a tutti i membri del Partito che incon-travano e facendo domande di ogni genere. A ogni buon conto, pattuglie non se ne erano viste; lungo il tragitto dalla stazione, inoltre, di tanto in tanto si era voltato indietro per assicurarsi di non essere seguito. Il treno era pieno di prolet, tutti allegri, come se fossero in vacanza, forse a causa del clima quasi estivo. Il vagone coi sedili di legno in cui aveva viaggiato era occupato completamente da una sola, numerosissima famiglia, i cui membri andavano da una bisnonna sdentata a un neonato di un mese. A-vrebbero trascorso il pomeriggio con alcuni "parenti acquisiti" che viveva-no in campagna, anche con lo scopo, come rivelarono a Winston senza crearsi troppi problemi, di procurarsi un po' di burro al mercato nero.
Il viottolo si fece più ampio e dopo un minuto Winston giunse al sentie-ro di cui lei gli aveva parlato, nulla più di un tratturo che s'inoltrava fra i cespugli. Non aveva l'orologio, ma certamente non erano ancora le undici.
Il terreno era così pieno di campanule, che non calpestarle era impossibile. Si chinò a raccoglierne alcune, un po' per impiegare in qualche modo il tempo dell'attesa, un po' perché gli era venuta una mezza idea di farne un mazzolino da offrire alla ragazza. Ne aveva anzi raccolto un bel fascio e ne stava odorando il delicato ma intenso profumo, quando un improvviso ru-more alle sue spalle, l'inconfondibile crepitio che fanno gli sterpi quando un piede vi si posa sopra, lo agghiacciò. Continuò a raccogliere le campa-nule, era la cosa migliore. Forse si trattava della ragazza, ma poteva pure darsi che qualcuno lo avesse seguito davvero, nel qual caso il guardarsi in-torno sarebbe equivalso a una sorta di ammissione di colpa. Continuò quindi a raccogliere i fiori. Qualcuno gli appoggiò delicatamente una mano sulla spalla.
Alzò lo sguardo: era la ragazza. Fece un gesto di diniego con la testa — un chiaro modo per invitarlo a non parlare — poi si aprì un varco fra i ce-spugli e senza indugiare cominciò a camminare davanti a lui lungo il sen-tiero, finché non s'inoltrarono nel bosco. Conosceva bene il posto, senz'al-cun dubbio, perché scansava con assoluta sicurezza le piccole pozzanghere che di tanto in tanto incontravano. Winston la seguiva, stringendo ancora in mano il mazzo di fiori. All'inizio si era sentito sollevato, ma ora, guar-dando il corpo snello e forte della donna che camminava davanti a lui, con la fascia scarlatta stretta quanto bastava a esaltare la curva dei fianchi, la consapevolezza della propria inferiorità gli comunicò un senso di angoscia. Perfino adesso gli sembrava più che probabile che, quando si fosse voltata a guardarlo, avrebbe finito col cambiare idea. Anche la soavità dell'aria e il verde delle foglie lo intimidivano. Già durante la passeggiata che aveva fatto quando era uscito dalla stazione, il sole di maggio l'aveva fatto sentire sporco e, per così dire, sbiadito, una creatura che viveva sempre al chiuso e aveva i pori della pelle impregnati della nera polvere di Londra. Si rese conto che forse fino a quel momento lei non lo aveva mai visto in piena luce e all'aperto. Giunsero all'albero caduto di cui gli aveva parlato. La ra-gazza lo superò d'un balzo e si aprì un varco fra i cespugli, in un punto in cui farlo sembrava impossibile. Winston le andò dietro e scoprì che si tro-vavano ora in una radura naturale, una collinetta circondata da alberelli al-ti, che la chiudevano completamente. La ragazza si fermò e si girò.
«Eccoci qua» disse.
Era di fronte a lui, a diversi passi di distanza, ma anche ora Winston non osava accostarsi a lei.
«Non ho aperto bocca lungo il sentiero» proseguì la ragazza, «per paura
di qualche microfono nascosto. Non credo che ce ne siano, ma non si può mai sapere. C'è sempre la possibilità che uno di quei porci riconosca la tua voce. Qui siamo al sicuro.»
Winston ancora non osava avvicinarsi a lei. «Siamo al sicuro?» ripeté stupidamente.
«Sì. Osserva gli alberi.» Erano frassini minuscoli, che qualche volta do-vevano essere stati tagliati ma poi, ricrescendo, avevano dato vita a una sorta di foresta di pali sottili come il polso di una mano. «Piantarvi dei mi-crofoni è impossibile. E poi, sono già stata qui.»
Fino a quel momento, si erano limitati a parlare, ma Winston era riuscito ad andarle un po' più vicino. La ragazza gli stava davanti, quasi sull'attenti, con un sorriso vagamente ironico sulla bocca, come a chiedergli che cosa stesse aspettando. Le campanule erano adesso sparpagliate al suolo, quasi fossero cadute da sole. Winston le prese la mano.
«Forse non ci crederai» disse, «ma fino a questo momento non sapevo nemmeno di che colore fossero i tuoi occhi.» Notò che erano marroni, di una tonalità piuttosto chiara, mentre le ciglia erano nere. «E tu, adesso che mi hai visto come sono veramente, riesci ancora a guardarmi?»
«Certo, che ci riesco.»
«Ho trentanove anni, una moglie di cui non posso liberarmi, le vene va-ricose, cinque denti falsi.»
«Per me tutto questo non ha la benché minima importanza» disse la ra-gazza.
Un attimo dopo, senza che nemmeno si capisse di chi era stata la prima mossa, lei era fra le sue braccia. Al principio le sensazioni di Winston fu-rono di pura e semplice incredulità. Quel bel corpo giovane era stretto con-tro il suo, ed egli poteva sentire sul volto la massa dei suoi capelli neri. Non era un sogno. Quando lei rialzò la testa, Winston prese a baciarle la bocca larga e rossa. La ragazza gli aveva stretto le braccia al collo, e ora lo chiamava tesoro, mio caro, amore mio. L'aveva tirata giù per terra: non opponeva alcuna resistenza, poteva davvero fare di lei quello che voleva. La verità, tuttavia, era che lui, se si esclude ciò che trasmetteva il mero contatto fisico, non provava sensazioni di sorta. Sentiva solo incredulità e orgoglio. Era felice di ciò che stava accadendo, ma non provava desiderio. Era troppo presto.
La sua giovinezza e la sua bellezza l'avevano intimidito. Non sapeva ne-anche perché, ma era troppo abituato a stare senza una donna. La ragazza si ricompose, togliendosi una campanula dai capelli, poi sedette accanto a
lui, passandogli un braccio attorno alla vita.
«Non importa, caro, non c'è fretta. Abbiamo l'intero pomeriggio. Non è un rifugio splendido? L'ho scoperto una volta che mi sono persa durante una gita sociale. Se dovesse arrivare qualcuno, lo sentiremmo a cento me-tri di distanza.»
«Come ti chiami?» le chiese Winston.
«Julia. Il tuo nome invece lo conosco. Ti chiami Winston, Winston Smith.»
«Come lo hai scoperto?»
«A scoprire le cose sono molto più brava di quello che credi, mio caro. Dimmi, che ne pensavi di me prima del giorno in cui ti ho passato il bi-glietto?»
Non gli venne neanche in mente di dirle bugie. Gli sembrò anzi un gesto d'amore non nasconderle il peggio.
«Odiavo anche il solo vederti» rispose. «Avrei voluto violentarti e poi ucciderti. Due settimane fa ho pensato seriamente di fracassarti la testa a colpi di pietra. Se proprio lo vuoi sapere, pensavo che tu avessi a che fare con la Psicopolizia.»
La ragazza rise divertita. Evidentemente scorgeva nelle parole di Win-ston un tributo alla perfezione del suo camuffamento.
«La Psicopolizia, addirittura! Ma dici sul serio?»
«Be', magari non è così, ma osservando il tuo aspetto, il tuo comporta-mento... capisci, tu sei giovane, fresca, sana... pensavo che probabilmen-te...»
«Pensavi che fossi un bravo membro del Partito, pura nel pensiero e nel-l'azione. Striscioni, cortei, slogan, gite sociali, insomma la solita solfa. E hai pensato che alla prima occasione ti avrei denunciato come psicocrimi-nale, così ti avrebbero fatto fuori.»
«Sì, pensavo qualcosa del genere. Moltissime ragazze sono così.»
«È tutta colpa di questa porcheria» disse la ragazza, strappandosi la fa-scia scarlatta della Lega Giovanile Antisesso e scaraventandola contro un ramo. Poi, come se nel toccarsi la vita si fosse ricordata di qualcosa, si fru-gò nella tasca della tuta e ne tirò fuori una barretta di cioccolato. La spezzò in due e ne diede metà a Winston. Prima ancora di toccarla, Winston aveva già capito dall'aroma che si trattava di un cioccolato molto particolare. Era molto scuro, lucido, avvolto in carta d'argento. Il cioccolato che conosceva era di un marrone opaco, si sfaldava fra le dita e al gusto ricordava, se si poteva arrischiare il paragone, il fumo che si sprigiona quando si da fuoco
a un mucchio d'immondizia. Eppure, c'era stata una volta in cui egli aveva mangiato del cioccolato come quello che gli aveva dato la ragazza. Non appena ne aveva aspirato il profumo, gli si era ridestato nella mente un ri-cordo che non riusciva a fissare, e purtuttavia intenso e perturbante.
«Dove l'hai preso?» le domandò.
«Al mercato nero» rispose lei con noncuranza. «All'apparenza io sono proprio come quelle ragazze che dicevi. Riesco bene nelle attività sportive, sono stata caposquadra delle Spie, tre sere a settimana presto lavoro volon-tario per la Lega Giovanile Antisesso. Ho passato ore e ore a incollare sui muri di tutta Londra quella loro robaccia. Nei cortei sono quella che regge immancabilmente l'asta degli striscioni. Ho sempre l'aria giuliva, non mi tiro mai indietro quando c'è da fare e se sto in gruppo grido come tutti gli altri. Ecco tutto. È l'unico modo per non avere seccature.»
Il primo frammento di cioccolato gli si era sciolto sulla lingua. Il sapore era delizioso, ma perdurava quel ricordo che pareva muoversi intorno ai margini della sua coscienza, una memoria intensa, ma alla quale non riu-sciva a dare una forma precisa, come accade quando si guarda un oggetto con la coda dell'occhio. Lo respinse via da sé, sicuro solo del fatto che si riferiva a un'azione già compiuta che avrebbe voluto — ma era impossibile — cancellare.
«Sei molto giovane» disse. «Hai dieci o quindici anni meno di me. Che cosa ti attira in un uomo come me?»
«Qualcosa nel tuo volto. Ho pensato che dovevo rischiare. Sono piutto-sto brava a individuare quelli che non fanno parte del gregge. Ho capito subito, non appena ti ho visto, che eri contro di loro.»
Loro, fu subito chiaro, si riferiva al Partito e ai membri del Partito Inter-no in specie, dei quali lei parlava con un odio schietto e con toni di scherno che trasmisero a Winston una certa inquietudine, anche se sapeva che non avrebbero potuto trovarsi in un luogo più sicuro. Una cosa di lei che lo la-sciava stupefatto era la volgarità del linguaggio. Era ritenuto sconveniente che i membri del Partito usassero un linguaggio sboccato. Lo stesso Win-ston imprecava di rado, e comunque mai ad alta voce. Sembrava invece che Julia non riuscisse a nominare il Partito, e soprattutto il Partito Interno, senza ricorrere a quel tipo di parole che si vedono scritte col gesso sui muri scrostati dei vicoli. La cosa non gli dispiaceva, perché vi vedeva un segno della sua ribellione contro il Partito, e anche perché aveva un che di natu-rale, di sano, come lo starnuto di un cavallo che puzza di fieno vecchio. Si erano allontanati dalla radura e ora passeggiavano di nuovo nell'ombra
maculata di luce, cingendosi la vita ogni qualvolta lo spazio era largo ab-bastanza per poter procedere fianco a fianco. Osservò che senza la fascia scarlatta i suoi fianchi sembravano assai più morbidi.
Parlavano fra loro solo sussurrando. Fuori del recinto, spiegò Julia, era meglio essere prudenti. Avevano raggiunto l'estremità del boschetto. Julia lo fermò.
«Non uscire allo scoperto, qualcuno potrebbe vederci. Se ci teniamo die-tro i rami, saremo al sicuro.»
Rimasero all'ombra di un folto di noccioli. Sentivano sul volto, ancora calda, la luce del sole, che s'infiltrava tra innumerevoli foglie. Winston guardò il campo che si stendeva davanti a loro e dopo un po' avvertì la cu-riosa e strana sensazione di averlo riconosciuto. Lo aveva già visto. Era un vecchio pascolo, ormai brullo, nel quale serpeggiava un sentiero. Qua e là potevano scorgersi i piccoli tumuli creati dalle tane delle talpe. All'estremi-tà opposta, sul lembo frastagliato del campo, i rami degli olmi ondeggia-vano nella brezza con un movimento quasi impercettibile, mentre le dense masse delle foglie, simili a chiome di donna, si agitavano appena. Chissà, forse non lontano, ma invisibile alla vista, scorreva un ruscello, con verdi pozze d'acqua in cui nuotavano le lasche.6
«C'è per caso un ruscello da queste parti?» mormorò.
«Esatto, c'è un ruscello. È all'estremità del campo accanto a questo. Ci sono grossi pesci, li puoi vedere mentre nuotano nelle pozze sotto i salici, muovendo le code.»
«È il Paese d'Oro... o quasi.»
«Il Paese d'Oro?»
«Oh, non è nulla, solo un paesaggio che a volte mi compare in sogno.»
«Guarda!» mormorò Julia.
A non più di cinque metri di distanza, un tordo si era appollaiato su un ramo, quasi all'altezza delle loro teste. Forse non si era accorto di loro. Il tordo era al sole, Winston e Julia all'ombra. L'uccello aprì le ali, le richiuse piano piano, chinò per un attimo il capo come se volesse rendere omaggio al sole, dopodiché proruppe in un canto a gola spiegata. Nella quiete del meriggio il volume di quel suono era sorprendente. Winston e Julia si strinsero, affascinati. Quella musica continuò per lunghi minuti, con varia-zioni stupefacenti e sempre nuove, come se l'uccello stesse offrendo volon-tariamente un saggio del suo virtuosismo. Di tanto in tanto si fermava per qualche secondo, apriva e chiudeva le ali, poi gonfiava il petto maculato e riprendeva il suo canto. Winston lo guardava con una certa deferenza. Per
chi, per che cosa cantava quell'uccello? Non v'era una compagna, né un ri-vale che lo guardassero. Che cosa lo spingeva a starsene appollaiato all'e-stremità di quel bosco lontano da tutto, affidando la sua melodia al nulla? Si chiese se non c'era un microfono nascosto lì vicino. Lui e Julia avevano parlato a voce bassissima, e certamente un microfono non sarebbe riuscito a cogliere quel che avevano detto, ma avrebbe captato di sicuro il canto del tordo. Forse dall'altro capo del filo qualche omuncolo dalla faccia di scara-faggio era intento all'ascolto, forse stava ascoltando quella... cosa. Ma poi, poco alla volta, il flusso di quella melodia scacciò ogni altro pensiero dalla sua mente. Era come se sul corpo gli scorresse una sorta di liquido, me-scolandosi alla luce del sole che filtrava tra le foglie. Smise di pensare e restò in ascolto. Nell'incavo della sua mano, il fianco della ragazza era morbido e caldo. La attirò a sé, di modo che fossero petto contro petto. Il corpo della ragazza parve fondersi nel suo e le sue mani, ovunque si pog-giassero, non incontravano resistenza, come se s'immergessero nell'acqua. Le loro labbra si cercarono, e non furono più i baci impacciati che si erano scambiati prima. Quando i volti si staccarono, emisero entrambi un pro-fondo sospiro. Il tordo si spaventò e volò via in un frullio d'ali.
Winston le accostò le labbra all'orecchio. «Adesso» le sussurrò.
«Non qui» sussurrò lei a sua volta. «Torniamo al nostro rifugio. È più sicuro.»
Rapidamente, facendo di tanto in tanto crepitare qualche rametto, torna-rono alla radura. Una volta che furono entro il cerchio tracciato dagli arbu-sti, Julia si volse verso di lui. Ansimavano tutti e due, ma il sorriso era tor-nato agli angoli della bocca della ragazza. Lo guardò per un istante, poi si portò la mano alla chiusura lampo della tuta. Fu quasi come nel sogno. Ve-locemente, quasi come lui l'aveva immaginato nelle sue fantasticherie, si era spogliata, gettando via gli abiti con quello stesso, magnifico gesto che nel sogno gli era parso annullare un'intera civiltà. Il suo bianco corpo splendeva al sole, ma per un attimo Winston non lo guardò, ammaliato da quel volto coperto di lentiggini e da quel sorriso appena accennato ma spa-valdo. S'inginocchiò accanto a lei, prendendole le mani fra le sue.
«Lo hai già fatto prima?»
«Naturalmente. Centinaia di volte... dozzine di volte, diciamo.»
«Con membri del Partito?»
«Sì, sempre con membri del Partito.»
«Con membri del Partito Interno?»
«No, con quei porci no, ma ce ne sono a decine che lo farebbero eccome,
se ne avessero l'occasione. Non sono così puri di spirito come vogliono fa-re intendere.»
Il cuore di Winston ebbe un balzo. Dunque Julia lo aveva fatto dozzine di volte. Bene, avrebbe voluto che lo avesse fatto centinaia, migliaia di volte. Tutto ciò che lasciava trasparire corruzione gli trasmetteva una spe-ranza sfrenata. Chissà, forse sotto la superficie il Partito era marcio, forse il suo culto della fermezza e della rinuncia era una mistificazione che serviva solo a occultare l'iniquità. Con quanta gioia, se ne avesse avuto i poteri, a-vrebbe inoculato la lebbra o la sifilide in tutto il Partito! Con quanta gioia avrebbe fatto uso di tutto ciò che potesse farlo imputridire, infiacchire, che potesse minarne le fondamenta! L'attirò giù. Erano in ginocchio, faccia a faccia.
«Ascolta. Più sono gli uomini che hai avuto e più ti amo. Capisci quel che voglio dire?»
«Perfettamente.»
«Odio la purezza, odio la bontà! Voglio che la virtù non esista in nessun luogo, e che tutti siano corrotti fino al midollo.»
«E allora, caro, dovrei essere proprio il tipo che fa per te, perché io sono corrotta fino al midollo.»
«Ma ti piace? Non sto solo dicendo se ti piaccio io, voglio sapere se ti piace fare l'amore in quanto tale.»
«L'adoro.»
Era soprattutto questo che voleva sentirle dire. Non il semplice amore per una persona, ma l'istinto animale, il desiderio indifferenziato, nudo e crudo. Era questa la forza che avrebbe mandato il Partito in pezzi. L'attirò a sé sull'erba, fra le campanule cadute. Questa volta non ci furono proble-mi. Dopo un po' i loro petti ansimanti si calmarono ed essi, in una sorta di piacevole languore, si separarono. Sembrava che il sole fosse diventato più caldo. Entrambi avevano sonno. Winston allungò una mano a prendere la tuta che Julia aveva scagliato via e con quella la coprì alla meglio. Si ad-dormentarono quasi subito, e dormirono per una mezz'oretta.
Winston si destò per primo. Si tirò su a sedere e guardò quel volto co-sparso di lentiggini, ancora immerso pacificamente nel sonno, che Julia te-neva poggiato sul palmo della mano. A parte le labbra, non si poteva dire che fosse bella nel senso proprio del termine. A guardare con attenzione, aveva qualche ruga attorno agli occhi. I capelli neri, tagliati corti, erano straordinariamente folti e morbidi. Winston si rese conto che non sapeva ancora dove abitasse, né quale fosse il suo cognome.
Quel corpo giovane e forte, ora indifeso nel sonno, destò in lui un senti-mento di protezione, di compassione, ma quella tenerezza incondizionata, che aveva provato sotto il nocciolo mentre il tordo cantava, non l'aveva più sentita. Spostò la tuta e restò a guardare attentamente i suoi fianchi morbi-di e bianchi. Una volta, pensò Winston, un uomo guardava il corpo di una ragazza, lo desiderava, e questo era tutto; ora non vi era spazio né per il puro amore né per la pura lussuria. Non esistevano emozioni allo stato pu-ro, perché tutto si mescolava alla paura e all'odio. Il loro amplesso era stato una battaglia, l'orgasmo una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico."

"George Orwell - 1984"

[lupo, un animale selvatico e solitario]

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